mercoledì 16 novembre 2016

Il castello abbandonato

Così, assolutamente senza preavviso, mi affidano le chiavi di un castello abbandonato; 3 piani, 45 stanze, sale riunioni, salotti e salottini, sala ristorazione, magazzini e dependances, oscuri vani impianti annessi, un'immensa volumetria immersa in un grande parco anch'esso in gloriosa decadenza.
Nel silenzio e nella più completa solitudine respiro un'atmosfera onirica e osservo come la natura stia lentamente e inesorabilmente riprendendo il sopravvento sui manufatti umani e sul cemento, complice la trascuratezza di tutti coloro che se ne sono approfittati negli ultimi vent'anni.
Mi attraversa un misto di stupore e malinconia per quei luoghi che hanno conosciuto antichi splendori e vivace accoglienza nel passato ma al contempo sono ammaliata dal fascino di questo isolamento e di questi silenzi surreali in grado di fermare lo scorrimento del tempo ordinario: sono in un “non luogo”, un altrove dimensionale dove il tempo si dilata inglobandomi in una bolla quieta e solitaria. Sto bene.

Sento solo il rumore delle mie scarpe sui marmi mentre passo in rassegna le stanze, aprendo le porte chiuse ad una ad una, piano per piano. Ad ogni apertura non so esattamente cosa aspettarmi ma non ho alcuna paura malgrado gli scricchiolii strutturali amplificati dal silenzio e dal vuoto che predomina su tutto.
Il vuoto, sì, che ha una sua sonorità ed un suo senso, anche un suo odore. Il vuoto esiste, ne percepisco l'energia ed è terribilmente affascinante.
Alcune stanze sono in stato di completo abbandono altre piene di ciarpame da buttare accumulatosi negli anni, altre ancora in condizioni accettabili. Un ottimo potenziale stupidamente mal gestito, trascurato, sprecato. Devo fare altri sopralluoghi ed un inventario, devo buttare via la “monnezza”, le cose rotte e inutili, togliere la polvere. Devo agire e pensare, immaginare e materializzare, c'è tanto lavoro da fare lì.

Ora sono di nuovo fuori e le sei creature del parco, uniche presenze vive, mi vengono rumorosamente incontro. Sono contente di vedermi e mi fissano affamate, tuttavia, diffidenti, si tengono a distanza di sicurezza. Sento i loro sguardi, i loro muscoli nervosi e agili, i loro sensi in allerta. Mi fermo in mezzo a loro presa dall'irresistibile attrazione che si tributa istintivamente alle creature fascinose ed eleganti col desiderio frustrato di toccare, carezzare e addomesticare.
Tra tutte ce n'è una che è diversa dalle altre e sembra averne piena consapevolezza: sa di essere bella, è completamente nera e magnetica e mi fissa con i suoi penetranti occhi verdi. Cerco di avvicinarmi per toccarla ma indietreggia non smettendo però poi di seguirmi; ci stiamo studiando vicendevolmente incuriosite e attratte. Mi sfida con impertinenza al gioco delle belle statuine, sicura di essere inafferrabile.

Ad un certo punto sento il ritmo del suo respiro e lentamente mi trovo dentro il tunnel dei suoi occhi profondi. Mi inebrio della sua essenza libera e selvatica che non conosce paure se non quella di essere catturata, lei è puro e ostinato istinto di sopravvivenza nell'unico modo che conosce, la logica inevitabile della sua esistenza; resiste anche al richiamo del cibo pur essendo affamata. La guarderei per ore. Mi sbatte in faccia con naturalezza le mie necessità a lungo procrastinate, è un ponte sul come dovrebbe essere, una sintesi di immagini eloquenti aldilà dello specchio.
Esco di colpo da questo viaggio e ancora stordita, lascio cibo e acqua in abbondanza per tutte. Mi incammino sul sentiero che mi porta all'uscita e al normale scorrimento dell'ordinarietà, chiudendomi alle spalle il cancello con la pesante catena a doppia mandata. Mi giro e mi accorgo che una di loro mi ha seguito per un po' e mi guarda mentre  mi allontano a passo rilassato.
Tuttavia, niente adesso è più come prima.

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