Così,
assolutamente senza preavviso, mi affidano le chiavi di un castello
abbandonato; 3 piani, 45 stanze, sale riunioni, salotti e salottini,
sala ristorazione, magazzini e dependances, oscuri vani impianti
annessi, un'immensa volumetria immersa in un grande parco anch'esso
in gloriosa decadenza.
Nel
silenzio e nella più completa solitudine respiro un'atmosfera
onirica e osservo come la natura stia lentamente e inesorabilmente
riprendendo il sopravvento sui manufatti umani e sul cemento,
complice la trascuratezza di tutti coloro che se ne sono approfittati
negli ultimi vent'anni.
Mi
attraversa un misto di stupore e malinconia per quei luoghi che hanno
conosciuto antichi splendori e vivace accoglienza nel passato ma al
contempo sono ammaliata dal fascino di questo isolamento e di questi
silenzi surreali in grado di fermare lo scorrimento del tempo
ordinario: sono in un “non luogo”, un altrove dimensionale dove
il tempo si dilata inglobandomi in una bolla quieta e solitaria. Sto
bene.
Sento
solo il rumore delle mie scarpe sui marmi mentre passo in rassegna le
stanze, aprendo le porte chiuse ad una ad una, piano per piano. Ad
ogni apertura non so esattamente cosa aspettarmi ma non ho alcuna
paura malgrado gli scricchiolii strutturali amplificati dal silenzio
e dal vuoto che predomina su tutto.
Il
vuoto, sì, che ha una sua sonorità ed un suo senso, anche un suo odore.
Il vuoto esiste, ne percepisco l'energia ed è terribilmente
affascinante.
Alcune
stanze sono in stato di completo abbandono altre piene di ciarpame da
buttare accumulatosi negli anni, altre ancora in condizioni
accettabili. Un ottimo potenziale stupidamente mal gestito,
trascurato, sprecato. Devo fare altri sopralluoghi ed un inventario,
devo buttare via la “monnezza”, le cose rotte e inutili, togliere
la polvere. Devo agire e pensare, immaginare e materializzare, c'è
tanto lavoro da fare lì.
Ora
sono di nuovo fuori e le sei creature del parco, uniche presenze
vive, mi vengono rumorosamente incontro. Sono contente di vedermi e
mi fissano affamate, tuttavia, diffidenti, si tengono a distanza di
sicurezza. Sento i loro sguardi, i loro muscoli nervosi e agili, i
loro sensi in allerta. Mi fermo in mezzo a loro presa
dall'irresistibile attrazione che si tributa istintivamente alle
creature fascinose ed eleganti col desiderio frustrato di toccare,
carezzare e addomesticare.
Tra
tutte ce n'è una che è diversa dalle altre e sembra averne piena
consapevolezza: sa di essere bella, è completamente nera e magnetica
e mi fissa con i suoi penetranti occhi verdi. Cerco di avvicinarmi
per toccarla ma indietreggia non smettendo però poi di seguirmi; ci
stiamo studiando vicendevolmente incuriosite e attratte. Mi sfida con
impertinenza al gioco delle belle statuine, sicura di essere
inafferrabile.
Ad
un certo punto sento il ritmo del suo respiro e lentamente mi trovo
dentro il tunnel dei suoi occhi profondi. Mi inebrio della sua essenza
libera e selvatica che non conosce paure se non quella di essere
catturata, lei è puro e ostinato istinto di sopravvivenza nell'unico
modo che conosce, la logica inevitabile della sua esistenza; resiste
anche al richiamo del cibo pur essendo affamata. La guarderei per
ore. Mi sbatte in faccia con naturalezza le mie necessità a lungo
procrastinate, è un ponte sul come dovrebbe essere, una sintesi di
immagini eloquenti aldilà dello specchio.
Esco
di colpo da questo viaggio e ancora stordita, lascio cibo e acqua in
abbondanza per tutte. Mi incammino sul sentiero che mi porta
all'uscita e al normale scorrimento dell'ordinarietà, chiudendomi
alle spalle il cancello con la pesante catena a doppia mandata. Mi
giro e mi accorgo che una di loro mi ha seguito per un po' e mi
guarda mentre mi allontano a passo rilassato.
Tuttavia,
niente adesso è più come prima.